VIAGGIO NELLA POVERTA' DEGLI IMMIGRATI DI LICOLAdi Gennaro Del GiudiceLICOLA. Un cumulo di spazzatura, un cancello divelto, un terreno ricoperto da erbacce: è la residenza di giovani extracomunitari. La miseria non conosce confini, nel 2010 c’è ancora chi vive per strada, dorme su un lenzuolo appoggiato sull’erba, addosso solo una coperta, sopra nessun tetto. Miseria che emerge sotto gli occhi di quanti attraversano via dei Platani, a Licola Borgo, la mattina raduno di tanti immigrati in attesa dei caporali, di un lavoro giornaliero in qualche campo di pomodori, per 25/30 euro. Poi la sera, il ritorno a casa, per chi ha la fortuna di averne una, un tetto con 4 mura, spesso fatiscenti, in tanti in un alloggio per sopperire alla spesa. All’incrocio di via dei Platani, all’angolo dei depuratori di Cuma - Licola in attesa fin dalle 6 del mattino, per chi non è fortunato la giornata trascorre così, girovagando, con la speranza per il giorno dopo.
Fortuna che c’è la mensa dei poveri a pochi passi, alle 12 tutti lì, l’opera caritatevole della diocesi rende meno amara la tristezza di una giornata così, senza un centesimo in tasca, senza qual lavoro per il quale si è venuti in Italia, magari da clandestini a bordo di una carretta del mare. In via dei Platani ci sono dei bidoni per la raccolta di rifiuti, per alcuni sembrano essere diventati un business, facendo le dovute proporzioni con il termine della new economy. Presidiano la spazzatura, i cassonetti in attesa che si fermino gli automobilisti, al posto loro aprono i cofani delle auto e gettano i sacchetti, ecco il lavoro per qualche centesimo. Anche di notte col freddo, quest’estate tra umidità, zanzare e la puzza degli organici. E’ l’unico punto di sversamento di rifiuti della zona, qui giunge la spazzatura dalle ville con piscina, dai parchi residenziali. Accanto a loro anche una montagna di rifiuti di ogni genere, che ogni giorno aumenta sempre di più, stranamente lì da settimane, nonostante la raccolta funzioni regolarmente. Dietro allo squallido cumulo c’è un cancello, un terreno forse di proprietà di qualcuno ma che apparentemente sembra abbandonato. Forse qualcuno ha forzato il cancello posto all’ingresso, la parte sottostante è divelta, abbassandosi ci può entrare chiunque.
Da lontano si scorgono della sagome, ci sono degli oggetti che hanno una certa familiarità: un frigorifero messo di lungo sull’erbaccia, un mobilone color mogano, alcune sedie, dei panni, delle lenzuola e due materassi stesi a terra. E’ la residenza di un gruppo di extracomunitari, di colore, ma anche di giovani dell’est. Anime che si muovono di sera, silenziosamente si stendono sotto le stelle, tra l’erbaccia di questo spiazzo di terreno. Anche una corda lunga attaccata su due capi, probabilmente messa lì per stendere la biancheria, quei pochi panni. Insieme a questi giovani anche due cani, a fare da guardia ai loro padroni. Ieri pomeriggio c’era uno degli abitanti, un giovane biondo, con gli occhiali da sole, un cappello, addosso una felpa con i colori della bandiera degli Stati Uniti d’America. Aveva lo sguardo rivolto verso la strada, pensieroso, era seduto, accanto a lui posta sul mobile la testa di una bambola, una testa di donna quasi inquietante.
Su un tavolino delle bottiglie di acqua, vino, liquore. Da solo, in attesa di qualcuno, dei compagni con i quali divide questo pezzo di terra. Che a vederlo, quando la mente realizza che lì c’è qualcuno che vive, accampato in quella maniera, viene un colpo al cuore, al solo pensiero, per noi inimmaginabile, lontano anni miglia: nel 2010 c’è ancora chi vive in così tanta degradante e assurda miseria.
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