domenica 31 ottobre 2010

MOVIDA E SCHIAMAZZI NOTTURNI, CONTROLLI A TAPPETO IN CITTA'

In campo carabinieri e Asl, finora 8 i locali chiusi
Sotto la lente d’ingrandimento igiene e decibel

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. Forze dell’ordine contro la movida selvaggia, guerra a schiamazzi e rumori notturni. Messa in campo un’attività di screening per quiete pubblica e tutela della salute nei confronti di bar, pub e discoteche dei Campi Flegrei, in azione una task force composta da carabinieri, agenti di polizia municipale e funzionari dell’Asl. Sotto la lente d’ ingrandimento decibel e igiene all’interno dei locali del divertimento notturno. Otto finora i locali risultati non in regola con le norme riguardanti la diffusione della musica nelle ore serali nelle zone ritenute “residenziali” e il rispetto delle norme igienico – sanitarie. Attività che dopo essere state verbalizzate nei prossimi giorni saranno costrette ad una chiusura “pro-tempore” a partire da 5 giorni. A seguito dei controlli effettuati nelle ore serali e notturne nei locali del centro storico di Pozzuoli, di via Napoli e in altre zone della città, sarebbe infatti emerso in particolare il non rispetto da parte dei gestori delle attività soggette ai controlli della prescrizione contenuta nella licenza commerciale rilasciata dal comune che pone come “orario massimo” per la diffusione musicale la mezzanotte. Pertanto, entro le 24 pub, bar e pizzerie che sorgono nelle abitate come via Napoli e centro storico di Pozzuoli sono tenute a spegnere stereo e altoparlanti sia all’interno che all’esterno della struttura. Orario limite che viene invece anticipato di un’ora per quanto riguarda la diffusione di musica all’aperto: pertanto fino alle ore 23 è possibile ascoltare musica solo all’interno dei locali. Norme che a quanto pare non sarebbero state rispettate da alcuni locali, quali pub, american bar, caffetterie dislocate tra la zona cosiddetta del “Carmine” e il centro storico di Pozzuoli, all’interno dei vicoli tra piazza della Repubblica e via Napoli. Ultimo in ordine di tempo un locale di corso Umberto I proprio a via Napoli lungo il marciapiede dei “pub” di fronte al lungomare “Sandro Pertini”. Denuncia al titolare per schiamazzi notturni e chiusura “forzata” dell’attività nei prossimi giorni. Cinque le serate durante le quali resterà chiuso che saliranno a 7 nel caso di seconda sanzione. Carabinieri della Compagni di Arco Felice coadiuvati da funzionari dell’Asl per i controlli igienico-sanitari che hanno scandagliato diversi locali della movida puteolana nella notte tra venerdì e sabato. Per quanto riguarda i controlli sulla musica la norma, oltre ad essere contemplata nella licenza rilasciata dal comune agli esercenti commerciali è contenuta anche in un’ordinanza emessa dall’allora commissario prefettizio al comune di Pozzuoli Vincenzo Madonna. Si tratta della n.42970 del 30/10/2007 che ha per oggetto “misure per il contenimento del disturbo della quiete pubblica causato dalle attività di intrattenimento, ricreative e sportive nelle aree residenziali” che regolamenta la diffusione musicale: “Fatto salvo il rispetto dei limiti di rumorosità previsti dalle norme vigenti, la diffusione di musica all'interno degli esercizi pubblici, sia dal vivo che riprodotta, è consentita fino alle ore 24, con obbligo di ridurre congruamente il volume, a partire dalle ore 23. L'uso di apparecchi radiotelevisivi ed impianti in genere per la diffusione sonora e di immagini, rientranti fra le attività accessorie comprese nella stessa autorizzazione di pubblico esercizio, è consentito fino all’orario di chiusura del locale, nel rispetto dei limiti di rumorosità. Le attività di cui sopra devono svolgersi esclusivamente all'interno del locale, senza dare luogo ad emissioni sonore avvertibili dall'esterno. E' vietato diffondere musica dall'interno all'esterno dei locali, a mezzo di apparecchi di amplificazione sonora”. Pertanto la norma riguarda sono ed esclusivamente i locali commerciali che esercitano all’interno di zone cosiddette residenziali, dove esistono nuclei abitativi come nel caso sopra citato del centro storico di Pozzuoli e Via Napoli.

INCIDENTE AUTOMOBILISTICO, FERITA SCAPPA DALL'OSPEDALE

Maxi tamponamento lungo la variante Anas, coinvolte 4 automobili
La ragazza, immigrata di colore, avrebbe avuto un aborto spontaneo a seguito dell’incidente


di Gennaro Del Giudice
servizi pubblicati su "Roma" e "Corriere Flegreo"

POZZUOLI. L’incidente lungo la Variante Anas tra gli svincoli di Monterusciello e Lago D’averno, quattro le automobili coinvolte nel tamponamento, gli occupanti tutti illesi. Qualche contusione, ma l’epilogo per il sinistro lungo una strada ad alta velocità e le modalità dello scontro, poteva essere più serio. Nulla che potesse far presagire al peggio ieri mattina, poco dopo le 11, negli attimi che seguono lo scontro. Carrozzerie danneggiate in maniera lieve, due dei quattro mezzi coinvolti finiti di traverso lungo la corsia. Una donna di colore viene condotta al pronto soccorso, a quanto pare è incinta, forse la paura, lo shock per il forte incidente, il dramma che improvvisamente, si consuma. Un aborto spontaneo, poi l’improvvisa fuga dall’ospedale, facendo perdere le tracce. Lei era alla guida di una Fiat Punto di colore scuro, una delle due auto finite contro il muro che sorge ai margini della carreggiata. Altre tre le auto coinvolte, una Toyota Yaris, una Renault Clio, e una Nissan Micra. Probabilmente una frenata, una perdita di controllo da parte di uno dei conducenti alla base del tamponamento. Lo scontro, l’auto della donna di colore finisce di traverso lungo la corsia, e proprio in questo frangente che si sarebbe consumato il dramma. Forte lo spavento, la giovane donna, a quanto pare incinta, veniva condotta presso l’ospedale “Santa Maria delle Grazie” in località “La Schiana”. Forse a causa del forte shock, a seguito dell’incidente pare che la donna perdeva il bambino che portava nel grembo. La scoperta della tragedia appena consumatasi, all’interno del pronto soccorso del nosocomio puteolano la donna si dava alla fuga, scappava dal box nella quale era stata visitata ed attraverso la finestra di un bagno situato al piano terra si dava alla fuga. Probabilmente oltre alla disperazione per un aborto spontaneo, il terrore di poter essere identificata, alla base del gesto forse il suo “status” di clandestina nel nostro paese, la paura di poter essere rimpatriata, questa la probabile chiave di lettura, una delle ipotesi ora al vaglio degli inquirenti. Ovviamente ipotesi che potranno essere avallate o smentite a seguito delle indagini, tese anche a ricostruire l’esatta dinamica del pericoloso sinistro stradale. Sul luogo dell’incidente oltre agli agenti della corpo di Polizia Stradale di Napoli, i sanitari del 118 e i carri attrezzi per effettuare la rimozione dei veicoli. Poco dopo anche i carabinieri del Nucleo radiomobile di Arco Felice. Forti anche le ripercussioni sul traffico veicolare lungo l’arteria: per tutta la mattinata e fino alle prime ore del pomeriggio rallentamenti e code.

sabato 30 ottobre 2010

SPORTELLI "POSTAMAT": PERICOLI IN AGGUATO

MANCANO LE TELECAMERE DI VIDEO SORVEGLIANZA,
CLIENTI A RISCHIO RAPINA

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. La sensazione, i pensieri sono sempre gli stessi: tremore, paura, che qualcuno possa comparire da un momento all’altro alle nostre spalle, sentirsi una pistola puntata alla schiena o essere vittime di uno scippo nel momento in cui il bancomat caccia le banconote. Molte banche per frenare la paura dei clienti mettono a disposizione ingressi protetti, cabine con vetri anti rapina, occhi elettronici installati dappertutto. Misure di sicurezza che non sembrano essere sempre uguali, specie per gli uffici postali. Emblematico l’esempio di Pozzuoli, 5 sportelli dislocati sul territorio cittadino, 2 impianti di videosorveglianza. Via Terracciano ed Arco Felice uffici super – protetti, telecamere a protezione di chi prende soldi cash anche di notte. Monterusciello, Licola e Via Napoli beneficiarie solo di un faro di illuminazione, niente più. E situate in contesti poco raccomandabili. Monterusciello, priva di videosorveglianza, ha messo nelle condizioni lo scorso 4 ottobre a due rapinatori di portare via un bottino da 120mila euro. Sono entrati all’interno degli uffici senza che nessuna telecamera riprendesse nulla. L’occhio elettronico più vicino a decine di metri di distanza, fuori ad un istituto di credito. Lo sportello Postamat situato a ridosso di una scalinata, la adiacente l’ufficio, Via Capuana, perennemente isolata nelle ore di chiusura di Asl, ufficio Annona e delle varie attività commerciali. Il pericolo di rapina per chi specie di sera si reca a prelevare denaro è elevato, per precauzione i tanti clienti giungono accompagnati da amici, familiari, conoscenti, una vera processione per un prelievo bancomat. Stesse scene che si verificano in piazza San Massimo a Licola, dove da poco all’esterno del fatiscente ufficio postale è stato collocato uno sportello Postamat. Nessuna telecamera, nonostante nella zona il tasso di criminalità sia elevato, specie nelle ore serali quando la piazzetta è completamente isolata, tante le vie di fuga per potenziali rapinatori, forte la paura per chi preleva denaro. Meno isolamento e degrado per la location dell’ufficio postale di Corso Umberto I a via Napoli. Zona cuore della movida puteolana, con bar, ristoranti e pub aperti fino all’alba e presenza di migliaia di persone che in qualche modo potrebbero agire da deterrente contro i malviventi. Ciò nonostante il dubbio permane: perché non vengono installate telecamere vicino a sportelli Postamat? Tutela della privacy, mancanza di fondi, cosa alla base di una situazione che tanto fa parlare gli stessi clienti degli istituti postali dislocati in città che vivono con la perdurante sensazione di sentirsi in mezzo alla strada, alla mercè dei rapinatori, senza alcun occhio elettronico che li protegga.

venerdì 29 ottobre 2010

LIQUIDI FOGNARI NEL LAGO, SOS DEGLI AMBIENTALISTI

IL SINDACO RACCOGLIE L'ALLARME E DA' INCARICO ALL'UFFICIO TECNICO DI VERIFICARE SCARICHI ABUSIVI

di Gennaro Del Giudice
pubblicato sul "Roma" venerdì 29 ottobre 2010

BACOLI. Liquidi fognari che finiscono nel canale delle acque piovane, con le quali si mischiano e confluiscono direttamente nel lago. Poi la puzza, l’aria infestata, la paura da parte dei cittadini, la denuncia per le condizioni poco salubri del Lago Fusaro. L’Sos che parte dall’associazione ambientalista “FreeBacoli”, i continui sopralluoghi da parte degli attivisti, un video-denuncia, 3 lettere dirette al sindaco. E i laghi dei Campi Flegrei che finiscono ancora una volta al centro di polemiche. Il Lago D’averno e le mani della camorra, le disastrate condizioni del Lucrino, la sporcizia del Miseno, ora la denuncia di liquidi fognari nel Lago Fusaro, territorio comune di Bacoli. E il sindaco che accoglie l’Sos, annuncia uno screening utile a verificare le condizioni del bacino d’acqua, appurare la presenza di scarichi abusivi. Una serie di campanelli d’allarmi lanciati dall’associazione, ultimo in ordine di tempo quello di martedì scorso, 26 ottobre. Giornata piovosa, le acque nere provenienti dall’ impianto di sollevamento della rete fognaria di Bacoli, in via Cuma, al picchetto denominato 31 che si immettono all’interno delle griglie realizzate per il flusso delle acque bianche poste all’incrocio tra via Cupa della Torretta e via Cuma. Poi da lì tutte insieme finivano per essere convogliate nel Lago Fusaro. "I sopralluoghi lungo il perimetro del lago Fusaro partono subito - afferma il sindaco Ermanno Schiano, che ha accolto l’sos lanciato dagli ambientalisti - ho appena firmato una nota con cui incarico l'ufficio tecnico del Comune di verificare la presenza di scarichi abusivi nel bacino salmastro. L'amministrazione municipale intende analizzare in maniera capillare la questione, nulla sarà lasciato al caso. La nostra attenzione nei confronti della tutela ambientale è altissima, e il recupero dei laghi è tra i punti principali del nostro programma". Occhi aperti quindi su quanto succede in città, sulle condizioni di vita di mari e laghi. Attività condotta in sinergia col primo cittadino dall'assessore all'Ambiente, Giuseppe Scotto Di Vetta, che segue l'evolversi dell'emergenza denunciata dalla Commissione consiliare, oltre a interessarsi delle condizioni del lago Miseno, dove sono in corso periodiche analisi dell'Arpac, come per il Fusaro.

giovedì 28 ottobre 2010

SGOMINATA "HOLDING DELLA MARIJUANA"

ALTRI MILLE CHILI DI ERBA SEQUESTRATI TRA LICOLA E LAGO PATRIA
IN MANETTE ANCHE FRATELLO E NIPOTE DI UNO DEI DUE CONTADINI ARRESTATI NEI GIORNI SCORSI

di Gennaro Del Giudice

LICOLA/LAGO PATRIA. Ancora quintali di droga sequestrati, Licola, Varcaturo e Lago Patria sommerse da tonnellate di marijuana. In tutto, in meno di una settimana oltre 2500 chilogrammi di marijuana sequestrati per un valore di mercato stimato intorno ai 18 milioni di euro, una sorta di “holding della marijuana” nostrana. Mercoledì oltre mille e duecento piante rinvenute, pari ad oltre mille chilogrammi per un valore di mercato stimato intorno ai sei milioni di euro. Ed altre due persone che finiscono in manette per produzione, coltivazione e detenzione illecita di stupefacente. Domenico Marrandino, 44 anni, residente a Giugliano in Campania, agricoltore, incensurato e Nicola Marrandino, 24 anni, anch’egli residente a Giugliano ed incensurato, fratello e nipote di uno dei due agricoltori arrestati qualche giorno fa per gli stessi reato. Quello di mercoledì il secondo maxi-sequestro, dopo i ritrovamenti di via Nullo a Licola e via Torino, nel corso del quale furono rinvenuti dai carabinieri mille e cinquecento chili di marijuana nascosti a bordo di un camion e in una serra. Quantitativi in possesso di due contadini, Raffaele Pennacchio e Vincenzo Marrandino, entrambi fermati e dopo una colluttazione con i militari arrestati e condotti presso il carcere di Poggioreale. Poi la successiva individuazione di capannoni in cui veniva conciata la canapa, con strumentazioni e mezzi per conservazione, essicazione e confezionamento della sostanza stupefacente. Epilogo, sequestro di immobili, macchinari, due arresti e altre cinque persone denunciate a piede libero. Ma le indagini non si sono fermate, battute palmo a palmo le zone al confine tra il giuglianese e i Campi Flegrei. Rastrellamenti e controlli a tappetto tra Licola, Varcaturo e Lago Patria, ribattezzato il “triangolo della marijuana”. Al setaccio campagne, terreni agricoli lungo i chilometri quadrati di terreno, al lavoro i carabinieri della stazione di Varcaturo che dal giorno successivo al maxi-sequestro in via Nullo e via Torino hanno portato avanti un’azione di screening in tutta l’area. Militari che si muovevano tra le campagne, in quei terreni negli ultimi anni invasi da colate di cemento armato selvaggio. La sensazione che potesse esserci altro oltre a quei 1500 chili di piante, la ricerca circoscritta alle campagne tra via Staffetta e via Pacchianella. Campagne nelle quali, tra una foltissima ed alta vegetazione fatta da rovi e canne di bambù, dopo aver aperto un varco tra le sterpaglie hanno trovato un sentiero. Circa 50 metri percorsi tra le piante e la scoperta: due campi di circa 1000 metri quadrati nei quali erano stati seminati in totale circa 1200 piante di cannabis la cui altezza raggiungeva i 3 metri e mezzo. Nella sterminata coltivazione di piante, molte con foglie ed infiorescenze in avanzato stato di maturazione ed altrettante, poggiate al suolo e già potate. La scoperta in un ampio spazio alle spalle di due esclusive villette a due piani, risultate tra l’altro già poste sotto sequestro un anno fa dai vigili urbani del comune di Giugliano. Oltre al lusso delle due abitazioni anche la presenza di un manufatto in costruzione anch’esso risultato abusivo e privo di licenze. Pertanto i due proprietari, Domenico Marrandino e Nicola Marrandino rispettivamente fratello e nipote di Vincenzo, arrestato qualche giorno fa, venivano ammanettati con l’accusa di produzione, coltivazione e detenzione illecita di stupefacente nonché per violazione di sigilli e condotti presso il carcere di Poggioreale. Gli oltre 1000 chilogrammi di piante di marijuana sequestrate e destinate al macero, così come venivano poste sotto sequestro le abitazioni e il manufatto abusivo. Un secondo grosso ritrovamento di marijuana che farebbe presagire ad un collegamento tra le quattro persone arrestate e le 5 denunciate a piede libero, una sorta di holding della droga che viste le quantità attiva su grosse piazze di spaccio nazionali e internazionali.

martedì 26 ottobre 2010

1500 CHILI DI MARIJUANA SEQUESTRATI A LICOLA

L'ERBA PER UN VALORE DI 12 MILIONI E MEZZO DI EURO NASCOSTA SU UN CAMION E IN UNA SERRA
ARRESTATI DUE CONTADINI, 5 DENUNCIATI A PIEDE LIBERO

di Gennaro Del Giudice
(foto esclusive del sequestro)

LICOLA. Due contadini con 12milioni e 500mila euro di marijuana. Fermati mentre viaggiano a bordo di un camion per un controllo, l’ispezione sotto al telone, tra arbusti e piante il maxi ritrovamento, una tonnellata di marijuana, 1000 chili nascosti sul carrellone del mezzo. Scoperti dai militari i due contadini tentano di fuggire a piedi, scatta l’inseguimento, vengono riacciuffati, avviene una colluttazione, uno dei contadini tenta di strappare la pistola ad un carabiniere. Una volta ammanettati scattano le indagini, qualche ora dopo un secondo maxi ritrovamento a casa di un genitore dei due, ancora altri 500 chili di marijuana ritrovate, in tutto una tonnellata e mezza per un valore di circa 12milioni e mezzo di euro. Il maxi-sequestro a Licola, in via Salvatore Nullo, qualche sera fa. La scoperta fatta dai carabinieri della stazione di varcaturo, che hanno fermato e arrestato in flagranza di reato per trasporto e detenzione illecita di stupefacenti, resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale Raffaele Pennacchio, 44 anni, residente a Villaricca, agricoltore incensurato e Vincenzo Marrandino, 46 anni, residente a Giugliano anch’egli agricoltore incensurato. I due stavano viaggiando a bordo di un camion Fiat “OM 40” di quelli utilizzati per il trasporto di materiali da giardinaggio o edilizio lungo la strada che collega la zona di Licola appartenente al comune di Pozzuoli con la cosiddetta “Rotonda di Maradona” , snodo viario verso i comuni di Marano e Villaricca. Sul mezzo, di proprietà del padre di Raffaele Pennacchio, i due agricoltori avevano nascosto sotto un telone di canne di bambù circa 1.000 piante di cannabis dell’altezza media di circa 2 metri (alcune già essiccate ed altre appena recise) del peso complessivo di 1.000 chilogrammi. Una volta fermati i malviventi hanno tentato di fuggire a piedi per le campagne circostanti ma sono stati inseguiti dai militari che sono riusciti ad immobilizzarli dopo breve colluttazione nel corso della quale Vincenzo Marrandino ha cercato di impossessarsi, senza riuscirci, della pistola di un carabiniere. I Nello scontro fisico con i due malviventi, due carabinieri avevano la peggio e costretti alle cure dei sanitari con una prognosi di 10 giorni per contusioni. Successivamente scattavano le indagini da parte dei militari coordinati dal capitano Alessandro Andrei. Lungo via Torino, venivano individuati nelle campagne adiacenti l’abitazione dei genitori di pennacchio 2 capannoni di 1000 mq, uno dei quali realizzati abusivamente in muratura, con copertura di amianto e perfettamente allestiti per l’essiccazione e la conciatura della canapa. Al loro interno 14 stufe elettriche ed altrettanti ventilatori professionali; altre 1000 piante di cannabis indica in essiccazione, con foglie ed infiorescenze in avanzato stato di maturazione, per un peso complessivo di 500 kg. circa ma con principio attivo di “thc 10” volte superiore alle piante appena raccolte ottenuto grazie al trattamento; 5000 mila bustine di cellophane destinate alla conservazione della droga. Durante gli accertamenti tecnici effettuati nella mattinata successiva dal Las dei carabinieri di Casoria hanno consentito di documentare che dal quantitativo totale di principio attivo contenuto nello stupefacente sequestrato si potevano ricavare circa 2.500.000 di confezioni singole che, vendute al dettaglio, avrebbero fruttato fino a 12.500.000 di euro. A seguito delle indagini oltre all’arresto dei due contadini, i militari ponevano il manufatto di via Torino sotto sequestro e denunciavano in stato di libertà per concorso in coltivazione e raffinazione di stupefacenti 5 familiari di Raffaele Pennacchio.

ENNESIMA MORTE SUL LAVORO

SILVANO PROCOLO DI BONITO, ORIGINARIO DI POZZUOLI MUORE SCHIACCIATO DA UNA PALA MECCANICA
L'UOMO LAVORAVA ALL'INTERNO DELL'IMPIANTO "STIR" DI GIUGLIANO

POZZUOLI. Il suo compito era verificare il rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, sotto la sua responsabilità 80 operai dell’Asia all’interno dell'ex “Cdr” di Giugliano. Un tragico destino ha voluto che proprio lui, che aveva tanta premura e senso di responsabilità nei confronti dei colleghi perdesse la vita proprio sul lavoro. Lui che se non ci fosse stata la perenne emergenza rifiuti in Campania, Terzigno in primis, probabilmente non si sarebbe trovato in quel capannone tra balle di rifiuti, gru e bracci meccanici. E proprio una di quelle benne, quei cestoni con grossi dentoni in ferro legati al gancio di un braccio meccanico, lo ha colpito alla testa, provocandogli lo schiacciamento del cranio. Una tragedia, una morte terribile per Silvano Procolo Di Bonito (detto Sylvio), 48 anni, residente a Portici ma originario di Pozzuoli. A manovrare il braccio mobile, ironia della sorte, proprio uno di quegli operai sotto la sua supervisione, D.S., che non si sarebbe accorto di lui, mentre era intento nelle manovre di lavoro, fermandosi solo nell'istante in cui avrebbe sentito un urlo tra il rimbombo e il rumore metallico all’interno di uno dei grossi capannoni dello STIR (Stabilimento di “Tritovagliatura e Imballaggio dei Rifiuti”) ubicato nell'area industriale di Ponte Riccio, a Giugliano. La tragedia domenica pomeriggio, poco dopo le 16, quando da qualche minuto era iniziato il turno di lavoro per Di Bonito e i suoi colleghi. Il 48enne, con origini francesi e la passione per la fotografia, era padre di due ragazzi, e in attesa di un terzo figlio. Nativo di Pozzuoli, dove nel quartiere di Monterusciello vivono i suoi familiari, risiedeva a Portici. Da dove domenica, subito dopo pranzo, era partito per recarsi al lavoro, svolgere il proprio turno di straordinario. Di Bonito era entrato nell'Asia, l’azienda che gestisce la raccolta rifiuti nel napoletano, all'inizio dell'anno dopo che questa aveva preso in gestione gli impianti Stir di Giugliano e di Tufino. Da quel giorno l’inizio della sua attività nei capannoni del giuglianese. Sindacalista della Cisl, sempre in prima fila per tutelare i diritti dei lavoratori. Tuta da lavoro, mascherina, guanti, scarpe anti-infortunistiche, un lavoratore disciplinato, attento a rispettare e far rispettare le norme sulla sicurezza. A lui, a quanto pare, competevano anche i controlli della qualità dei rifiuti dopo la tritovagliatura, operazione di pretrattamento dei rifiuti, che si compone di triturazione e vagliatura. La fase di triturazione serve a ridurre la dimensioni dei rifiuti ed è applicata sia nella fase iniziale di selezione, sia nella fase successiva di post-trattamento meccanico. Invece la vagliatura serve per separare le diverse categorie di materiale. Domenica pomeriggio Di Bonito si trovava nell’ultimo dei capannoni del Cdr, dove vengono stivati i materiali, in atto dei controlli sulla qualità sui rifiuti. Prima di essere sottoposti al controllo della radioattività, selezionati, pressati e quindi trasportati al termovalorizzatore. In quel momento insieme a lui nella struttura una pala meccanica, la benna posta alla fine del braccio meccanico che si riempiva e svuotava di materiale già tritovagliato, guidata da un collega. Improvvisamente però qualcosa non ha funzionato. D.S., l’operaio che manovrava la pala meccanica avrebbe perso di vista Di Bonito, probabilmente abbassatosi e “scomparso” dal campo visivo del palista. Una delle solite manovre, ma questa volta la benna trovava un ostacolo, la testa del 48enne. Un urto tremendo, l’uomo si accasciava al suolo. Attimi di terrore e panico all’interno del capannone, dove accorrevano gli altri colleghi in quel momento al lavoro. Inutile la corsa dei sanitari del 118, Di Bonito era già morto. All’interno dell’impianto Stir giungevano Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, i familiari del 48enne, tra loro anche il comico Lino Barbieri, amico della famiglia Di Bonito. Per l’intero pomeriggio e fino a tarda serata venivano effettuati i rilievi all’interno della struttura, ascoltati i colleghi del 48enne che in quel momento si trovavano a lavoro. D.S., il conducente della pala meccanica, in evidente stato di shock veniva condotto presso l’ospedale di Giugliano. L’uomo è stato iscritto nel registro degli indagati dal pubblico ministero incaricato dalla Procura di Napoli Luigi Landolfi che indaga sull’accaduto che dovrà ricostruire quegli attimi prima della tragedia. Anche se la sensazione è che l’ennesima morte bianca sia stata frutto di un’assurda fatalità.

sabato 23 ottobre 2010

FURTO AL MATRIMONIO, RUBATI 20MILA EURO DI BUSTE

REGALI E SOLDI AFFIDATI AD UNA CUGINA DEGLI SPOSI
DURANTE LA CERIMONIA APERTA L'AUTO DELLA DONNA E PORTATO VIA IL BOTTINO

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. Furto di buste al matrimonio, bottino 20mila euro. E il giorno del “si” che rimarrà doppiamente indelebile nella mente di una coppia di sposi puteolani. “Dove mettere i soldi delle buste, i regali in denaro contante di amici e parenti?” una domanda che ogni coppia si pone, forse la maggiore “preoccupazione” dopo che la tensione della funzione religiosa, l’amore eterno giurato sull’altare inizia a scemare. Il “manuale di strada” poco ortodosso consiglierebbe di nascondere nei posti più impensabili i soldi ricevuti il giorno del matrimonio, tra scatti di foto e tra una pietanza all’altra. Slip e calzini dello sposo, doppi fondi nelle tasche del papà, mazzetti di banconote divise tra i fedelissimi tra i luoghi ritenuti più sicuri. Perché quel giorno si sa circola moneta contante, e nonostante l’euforia generale meglio tenere sempre alta la tensione, stare sul “chi va là”. Lo avevano pensato anche una coppia di neo-coniugi qualche giorno fa, dopo l’eterno amore giurato davanti al prete. Usciti dalla chiesa, il tour in posa tra le bellezze della città, le foto di rito con gli invitati, la cerimonia in un noto locale di Pozzuoli. Centocinquanta gli invitati, il calore e l’affetto di tutti intorno alla coppia di sposi. Al ristorante la consegna dei regali, la classica busta contenente il bigliettino d’auguri accompagnato dalle banconote con tagli minimi da 50 euro. Il parente che avvicina la sposa, lo sposo o che dinanzi ad entrambi consegna la busta bianca contenente denaro. Non solo soldi ma anche regali da matrimonio, costosi e pregiati. Che finiscono sulla tavola degli sposi, come al solito nelle tasche della giacca dello sposo, poi raccolti in mazzetti, pronti per essere conservati secondo il “piano di sicurezza” messo in campo dagli sposi. “Diamo tutto a mia cugina, una insospettabile” avrà detto uno dei due, idea fuorviante per il rapinatore di turno, qualora si sarebbe voluto imbattere in un “repulisti” di denaro e regali nei confronti della coppia appena felicemente convogliata a nozze. Così la cugina, anziché il solito genitore, fratello o sorella, si prodiga nel ritirare dalla coppia i preziosi appena ricevuti e, convinta di passare inosservata, in un andirivieni dalla sua automobile, custodisce “preziosamente” denaro e regali. In tutto 20mila euro di regali che la donna durante e dopo la cerimonia nuziale all’interno di un noto ristorante di Pozzuoli tiene “custoditi” nella propria automobile. Che scrupolosamente ed attentamente ad ogni consegna chiudeva. Ad un certo punto, servile fino alla fine alla coppia di sposi, si dirigeva in via Campana a casa della sposa per ritirare vestiti e scarpe, necessari ai neo coniugi per il viaggio di nozze. Il viaggio dal ristorante a casa della sposa fatto con l’auto carica di regali e soldi. Giunta in prossimità dell’abitazione la donna scende dall’auto, chiude finestrini e portiera, lascia in auto i 20mila euro. Qualche minuto, il tempo di salire e scendere ed ecco la spiacevole sorpresa: l’auto forzata, ripulita di soldi e regali, il tesoro portato via. Probabilmente qualcuno, visti i movimenti della donna con la sua auto, avrebbe atteso il momento giusto per entrare in azione. Lo shock, la “tragica” notizia data agli sposi che avrebbero dovuto pagare parte della cerimonia svoltasi in ristorante proprio con quei soldi ricevuti dalle buste. E un genitore di uno dei due sposi costretto a prelevare dal proprio conto corrente denaro contante per pagare il conto. “Tattica” quella di affidare soldi e regali alla cugina anziché utilizzare le tattiche oramai già “rodate” costate care agli sposi, che staranno ora recriminando su quanto accaduto nel giorno più bello della loro vita.

CONCERTI NOTTURNI FUORI AL CARCERE FEMMINILE

DAI GIARDINETTI MARITI, FIDANZATI, PARENTI E AMICI DELLE DETENUTE FANNO SENTIRE IL PROPRIO AFFETTO CON OGNI MEZZO
FUOCHI D'ARTIFICIO E BOTTIGLIE DI SPUMANTE PER SALUTARLE

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. Storie da “Romeo e Giulietta” targate 2010. Lui giù che urla frasi d’amore, lei dall’alto che contempla il suo amato. Lei che non si affaccia da un balcone della nobil Verona, ma che giarda dietro le sbarre di una cella, dai piani alti di un carcere. Tante storie d’amore, d’affetti che s’intrecciano a Pozzuoli, città che ospita il penitenziario femminile, “casa” per centinaia di donne. Non possono bastare le ore di visite settimanali, la voglia di vedere la propria amata moglie, fidanzata, mamma, amica, donne che hanno commesso degli errori, che stanno pagando con la libertà dietro le sbarre di un carcere. Perché non approfittare della possibilità di sentire la loro voce, di far sentire la propria voce, per rendere meno amaro un periodo di lontananza forzata. Scritte sui muri, frasi urlate in lontananza, perfino fuochi d’artificio, quanto basta per “sentirsi vicini” anche quando non lo si è. Scene da “Romeo e Giulietta” che quotidianamente avvengono a Pozzuoli, specie di sera, a rendere più surreale l’atmosfera. “Ti amo amore mio”, “Non mollare, ti siamo vicini” e “Questi sono per te” il preludio allo scoppio nella notte di fuochi d’artificio, a salutare un compleanno, un anniversario o semplicemente per dimostrare il proprio amore, l’affetto. Dai giardinetti nei pressi del “Tempio di Nettuno”, dalle mura di un parco privato in via Terracciano, nei pressi dell’ufficio postale, punti dai quali è possibile intravedere in lontananza, tra le sbarre di una cella, la propria amata rinchiusa tra quelle mura del carcere femminile di Pozzuoli. Le urla che si sentono dalla strada, lei dalla sua celle, lui o loro dalla strada che comunicano per qualche minuto, poi anche i fuochi d’artificio, la scenografia che viene ammirata dalle compagne di cella. Storie di difficoltà, di sofferenza, per chi giustamente sta pagando una pena, per aver commesso un reato, che secondo la legge merita di stare lì dietro quelle sbarre. Ma pur sempre “storie di vita” emozioni che anche chi giustamente paga con la privazione della libertà vive. Ieri mattina girando tra i giardinetti del “Tempio di Nettuno” si aveva la sensazione che da qualche ora fosse terminata una festa, cartoni di pizze, bottiglie di birra, spumante ma anche e soprattutto le cartucce dei botti esplosi. Batterie di fuochi sparati qualche ora prima per salutare qualche ricorrenza o semplicemente per una dedica alla propria amata, moglie, fidanzata, mamma, che in attesa di riabbracciarla, la si saluta con botti e frasi d’amore urlate al cielo, come in una rivisitazione della celebre storia di “Romeo e Giulietta”.

giovedì 21 ottobre 2010

FURTO DA 300MILA EURO DA "ELEFANTINO SPORT"

NELLA NOTTE RUBATI MIGLIAIA DI CAPI GRIFFATI "CALCIO NAPOLI"
IL MATERIALE PORTATO VIA CON UN FURGONE DI PROPRIETA' DELL'AZIENDA

di Gennaro Del Giudice
servizi pubblicati sul "Roma" e "Corriere Flegreo"

POZZUOLI. Il buio rotto dai fasci di luce dei fari attaccati alle pareti di cemento, intorno campagna e grossi capannoni, le poche abitazioni distano decine di metri. Nemmeno il rumore del flex che squarcia il ferro ha infranto il silenzio, ogni tanto rotto dal passaggio di qualche auto o tir lungo la strada principale. Rimossa una delle sbarre di ferro che insieme alle altre fanno da cinta allo stabile, creando lo spazio utile al passaggio di una persona. Entrati nel cortile, l’arrampicata lungo la parete, fino al primo piano, per mettere fuori uso l’antifurto, rompere una finestra ed accedere nell’edificio. Indisturbati, una volta dentro il capannone a 2 piani, hanno “lavorato” in totale tranquillità, svaligiando il mega shop di articoli sportivi “Elefantino Sport”, a Pozzuoli. L’obiettivo del raid sembrerebbe essere stato preciso: “fare incetta di tutti gli articoli del Calcio Napoli”, e così è stato. Magliette, pantaloncini, borse, scarpe, completini da gioco, tutte ed altri articoli griffati col marchio della Società Sportiva Calcio Napoli e dalla casa produttrice “Macron”. Migliaia di articoli “scelti” tra la miriade di materiale presente all’interno del capannone al civico 233 di via Campana, poi caricati a bordo di un furgone, di proprietà dello stesso negozio e portati via, nel silenzio della notte, indisturbati, senza che nessuno potesse vedere nulla. “300mila euro il bottino”, la prima stima fatta da uno dei due titolari dell’azienda, Pietro, mentre all’interno del capannone gli uomini della scientifica sono alla ricerca di “tracce” lasciate dai malviventi. Le uniche, visto che dentro e fuori i locali nessuna telecamera di sorveglianza è presente, a protezione del locale solo quel sistema di allarme, abilmente messo fuori uso. Qualche occhio elettronico posto all’esterno di un capannone dirimpettaio a quello del mega shop di articoli sportivi, potrebbe contenere qualche fotogramma, le sequenze del colpo da 300mila euro. I poliziotti del commissariato di Polizia di Pozzuoli hanno acquisito i file video, alla ricerca di qualche utile indizio. Il colpo nella notte tra lunedì e martedì. “Hanno segato una sbarra di ferro della cancellata, rotto la finestra al primo piano e poi l’antifurto, posto nelle vicinanze della finestra” racconta Mario, l’altro proprietario del megastore di articoli sportivi che da oltre 30 anni opera nella città di Pozzuoli “Purtroppo non abbiamo telecamere, così dopo aver messo fuori uso l’antifurto hanno avuto tutto il tempo di frugare prendendo tutto materiale del Calcio Napoli e portandoselo a bordo di un furgone di nostra proprietà. Questa è il primo furto che subiamo, qualche anno fa solo un episodio durante il quale fu portato via un computer, niente più”. All’indomani del furto ancora visibili i segni: quadro elettrico e centralina dell’antifurto scassinati, i fili elettrici strappati, le pareti attrezzate qualche ora prima piene “dell’azzurro Napoli” vuote. Ad entrare in azione, viste le modalità del raid e la notevole quantità di materiale rubato, probabilmente due o più persone. Il grosso stabile, due piani più l’ingresso a pian terreno, sorge tra due vicoli, lungo la principale via Campana. L’ingresso del negozio “Elefantino Sport” sorge a pochi metri dalla sede dell’Inps e di capannoni che ospitano diverse attività commerciali all’ingrosso e piccole industrie. Non distante da qui, lungo la principale via Campana in direzione Pozzuoli, lo scorso 23 maggio venne svaligiato il fornitore di computer “Micromaint”, dal quale vennero portati via, sempre nella notte oltre 700 notebook, dopo che i malviventi avevano messo fuori uso il cancello elettronico che sorge proprio lungo la strada. Questa volta per entrare nei locali i malviventi hanno agito dal vicolo alle spalle dell’ingresso, dove con l’ausilio di un flex hanno segato uno dei pali di ferro che cingono l’intera struttura, creando lo spazio utile al passaggio di una persona. Avuto accesso allo spiazzale, si sarebbero poi arrampicati lungo una facciata dell’edificio, mettendo fuori uso il sistema di allarme elettronico installato su tutto il perimetro del locale. A quel punto avrebbero rotto una finestra ed avuto accesso ai locali al primo piano. Sistema d’allarme fuori uso, nessuna telecamera, il buio della notte, il silenzio di una zona non abitata, condizioni per “lavorare” in piena tranquillità. I malviventi hanno avuto così il tempo di rovistare “selezionando” il materiale da portare via: tutti articoli con il marchio della Società Sportiva Calcio Napoli, portati fuori attraverso la porta d’ingresso e poi caricati a bordo di un furgone di proprietà dell’azienda parcheggiato nello spiazzale. Sistema d’allarme messo fuori uso, dall’interno i malviventi avrebbero spento il quadro elettrico permettendo l’apertura manuale del cancello elettronico che da sulla strada. Poi la fuga in direzione Quarto o verso la Tangenziale di Napoli a bordo del furgone col bottino di circa 300mila euro. Un colpo, viste le modalità, che potrebbe essere stato “commissionato” da qualcuno, alla vigilia dei due incontri ravvicinati del Napoli contro Liverpool e Milan. Il materiale rubato destinato a finire sulle bancarelle dei venditori ambulanti e rivenduto velocemente, senza lasciare “tracce”. La scoperta di quanto accaduto nella notte solo in mattinata, alla riapertura dell’attività commerciale, da parte dei titolari e dipendenti dell’azienda. Poi l’allarme e l’arrivo sul posto degli agenti del commissariato di Polizia di Pozzuoli diretti dal vice questore Paolo Esposito e gli uomini della scientifica che per l’intera mattinata sono stati al lavoro alla ricerca di “tracce” lasciate dai malviventi. Il secondo colpo ai danni di un megastore di articoli sportivi dopo quello del 9 settembre scorso: quella notte, a finire nel mirino dei ladri “Mida Sport” di via Campi Flegrei bottino articoli sportivi per un valore di 10mila euro.

martedì 19 ottobre 2010

TRA DISPERAZIONE E MISERIA

VIAGGIO NELLA POVERTA' DEGLI IMMIGRATI DI LICOLA

di Gennaro Del Giudice

LICOLA. Un cumulo di spazzatura, un cancello divelto, un terreno ricoperto da erbacce: è la residenza di giovani extracomunitari. La miseria non conosce confini, nel 2010 c’è ancora chi vive per strada, dorme su un lenzuolo appoggiato sull’erba, addosso solo una coperta, sopra nessun tetto. Miseria che emerge sotto gli occhi di quanti attraversano via dei Platani, a Licola Borgo, la mattina raduno di tanti immigrati in attesa dei caporali, di un lavoro giornaliero in qualche campo di pomodori, per 25/30 euro. Poi la sera, il ritorno a casa, per chi ha la fortuna di averne una, un tetto con 4 mura, spesso fatiscenti, in tanti in un alloggio per sopperire alla spesa. All’incrocio di via dei Platani, all’angolo dei depuratori di Cuma - Licola in attesa fin dalle 6 del mattino, per chi non è fortunato la giornata trascorre così, girovagando, con la speranza per il giorno dopo.
Fortuna che c’è la mensa dei poveri a pochi passi, alle 12 tutti lì, l’opera caritatevole della diocesi rende meno amara la tristezza di una giornata così, senza un centesimo in tasca, senza qual lavoro per il quale si è venuti in Italia, magari da clandestini a bordo di una carretta del mare. In via dei Platani ci sono dei bidoni per la raccolta di rifiuti, per alcuni sembrano essere diventati un business, facendo le dovute proporzioni con il termine della new economy. Presidiano la spazzatura, i cassonetti in attesa che si fermino gli automobilisti, al posto loro aprono i cofani delle auto e gettano i sacchetti, ecco il lavoro per qualche centesimo. Anche di notte col freddo, quest’estate tra umidità, zanzare e la puzza degli organici. E’ l’unico punto di sversamento di rifiuti della zona, qui giunge la spazzatura dalle ville con piscina, dai parchi residenziali. Accanto a loro anche una montagna di rifiuti di ogni genere, che ogni giorno aumenta sempre di più, stranamente lì da settimane, nonostante la raccolta funzioni regolarmente. Dietro allo squallido cumulo c’è un cancello, un terreno forse di proprietà di qualcuno ma che apparentemente sembra abbandonato. Forse qualcuno ha forzato il cancello posto all’ingresso, la parte sottostante è divelta, abbassandosi ci può entrare chiunque. Da lontano si scorgono della sagome, ci sono degli oggetti che hanno una certa familiarità: un frigorifero messo di lungo sull’erbaccia, un mobilone color mogano, alcune sedie, dei panni, delle lenzuola e due materassi stesi a terra. E’ la residenza di un gruppo di extracomunitari, di colore, ma anche di giovani dell’est. Anime che si muovono di sera, silenziosamente si stendono sotto le stelle, tra l’erbaccia di questo spiazzo di terreno. Anche una corda lunga attaccata su due capi, probabilmente messa lì per stendere la biancheria, quei pochi panni. Insieme a questi giovani anche due cani, a fare da guardia ai loro padroni. Ieri pomeriggio c’era uno degli abitanti, un giovane biondo, con gli occhiali da sole, un cappello, addosso una felpa con i colori della bandiera degli Stati Uniti d’America. Aveva lo sguardo rivolto verso la strada, pensieroso, era seduto, accanto a lui posta sul mobile la testa di una bambola, una testa di donna quasi inquietante. Su un tavolino delle bottiglie di acqua, vino, liquore. Da solo, in attesa di qualcuno, dei compagni con i quali divide questo pezzo di terra. Che a vederlo, quando la mente realizza che lì c’è qualcuno che vive, accampato in quella maniera, viene un colpo al cuore, al solo pensiero, per noi inimmaginabile, lontano anni miglia: nel 2010 c’è ancora chi vive in così tanta degradante e assurda miseria.

PROTESTANO LE MAMME DEI CONTAINER

CORTEO PER LE STRADE E PRESIDIO AL COMUNE DI POZZUOLI
NULLA DI FATTO, DOVRANNO PAGARE IL CONSUMO DI ENERGIA ELETTRICA

di Gennaro Del Giudice
(foto Angelo Greco)
sul Roma di mercoledì 20 ottobre 2010

POZZUOLI. Era nell’aria, ieri l’ennesima conferma: il comune di Pozzuoli non fa dietro-front, gli abitanti dei container dovranno pagare di tasca loro il consumo di energia elettrica, dal 1986 a carico dell’ente. Sale la tensione, gli abitanti dei container minacciano di alzare il livello della protesta, si accende lo scontro. Non è bastato scendere in strada ieri, nonostante la pioggia battente loro, le donne dei container con bambini a seguito, passeggini, hanno sfilato fino alla casa comunale. “Dopo 25 anni di ansia, degrado e sofferenza non sappiamo che fine faremo”, “Siamo persone civili e da tali vogliamo vivere in una vera casa” striscioni eloquenti, messaggi esposti durante il tragitto del corteo, una settantina di persone, dal campo container di via Carlo Alberto Dalla Chiesa fino alla palazzina numero 7 una volta sede del sindaco, oggi occupata dal commissario prefettizio. Protesta composta, sotto l’occhio vigili di carabinieri, polizia, agenti di polizia municipale, che hanno presidiato l’ingresso quando una delegazione di manifestanti è stata ricevuta dal sub-commissario Ciro Silvestro. Come giovedì scorso, oltre 2 ore di discussioni, il muro contro muro, le due parti a confronto, posizioni che rimangono identiche. Confermato il taglio di 120mila euro per l’energizzazione di container e prefabbricati dislocati in città, ogni occupante dovrà a spese proprie, sottoscrivere un contratto di fornitura energetica. Hanno pochi giorni di tempo, prima di ritrovarsi nelle baracche di lamiera al buio e senza riscaldamenti. “I 120mila euro destinati a pagare la corrente per gli oltre 70 container dislocati in città potrebbero finire nelle casse per i fondi destinati agli indigenti, ma in città nonostante l’alto tasso di povertà denunciato, ufficialmente i poveri sarebbero solo 83, quante le domande presentate” è il dato anomalo che legge il sub commissario, rassicurando gli interlocutori sulla consegna delle nuove case popolari, 80 alloggi nel quartiere di Monterusciello, 90 le domande, fine lavori previsto 2013 “Quando le case inizieranno ad essere costruite potrete lasciare i container, che verranno immediatamente abbattuti e fare richiesta per i fondi destinati agli indigenti, in maniera tale che potrete poi fittare con quei soldi una casa in attesa della consegna di quella assegnata”. Status di povertà che pare stia stretto a molti, sulla base delle richieste di sussidi pervenute, appena 83, sintomo di un pericoloso trend “Se facciamo la domanda ci tolgono pure i bambini, ci muoveremo dai container solo quando ci daranno le chiavi delle nuove case in mano, nel frattempo chiediamo di continuare a non pagare la corrente perché in container fatti di amianto non possiamo nemmeno fare un impianto di metano o gas”. I toni si accendono, le donne dei container vanno avanti, si preparano a nuove proteste.

LUNGOMARE "SANDRO PERTINI" ALLA MERCE' DEI VANDALI

I SEGNI DELLA DISTRUZIONE AD UN ANNO DALL'APERTURA

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. Fiore all’occhiello della città, prima delle “Grandi Opere” ultimata lo scorso anno, il lungomare “Sandro Pertini” quello che tutti temevano oggi lo stato diventando: simbolo di degrado alla mercè dei vandali. Poco più di 365 giorni di vita, quando fu alzato il sipario tra gli applausi di autorità, starlette e cittadinanza. Giorni che sembrano appartenere al trapassato remoto. Vigili a bordo dei mezzi a due ruote a presidio del lungomare, giardinieri al lavoro per mantenere perfetta quella che dal mare sembra una cartolina della città, niente di tutto questo. Lo scenario è triste: erbacce tra fiori e pianti, buche lungo le aiuole pericolosissime specie per i più piccoli, lampioni rimossi dai pali dell’illuminazione, mura imbrattate. Biglietto da visita che diventa sempre più sconcertante se si inizia a passeggiare, se si vuole usufruire delle strutture messe a disposizione: per i più piccoli le giostrine, con le corde delle altalene che sono state spezzate, catene e sedile rimossi. Così come il tappetto anti-infortunistico, creato proprio per permettere ai bambini di non farsi male in caso di cadute: anche questo rimosso dal terreno. Ancora, un cestino dei rifiuti le cui lamiere sono state gettate a terra, rotto anche il supporto in pietra sul quale si reggeva, anche sui due campetti di basket, i segni della devastazione. Sul primo, in direzione “La Pietra” due lampioni rotti, la rete di protezione al confine con la strada sganciata dai supporti e bucata in più parti, intorno ai pali non esistono le protezioni per attutire gli urti che invece si trovano intorno ai lampioni del l’altro campetto. Qui però ad essere rotte sono le reti dei canestri, la pavimentazione anti-infortunistica, i sostegni delle strutture che reggono tabelloni e canestri sono ricoperte dalla ruggine. Possibile mai che non esista manutenzione, che non venga evitato tanto scempio? Vive da chiedersi. Di sera, nelle ore della movida notturna accade di tutto, bottiglie a terra, motorini che scorazzano in lungo e in largo. La vecchia amministrazione aveva promesso i vigili a bordo dei veicoli motorizzati, avrebbero dovuto percorrere avanti e indietro il lungomare, controllare, proteggere questo bene per la città e non solo. Niente di tutto questo. Poi l’aprile scorso si pensò di vietare l’accesso ai cani, quando nel frattempo l’erba cresceva, i fiori si appassivano, le giostrine per i bambini venivano distrutte, i lampioni rotti, per il trionfo dell’inciviltà. Che oggi, senza demagogia, sembra davvero regnare sovrana in quello che doveva essere il fiore all’occhiello per l’intera città.

PERICOLO FRANA IN VIA VIRGILIO AD ARCO FELICE

CONTINUI SMOTTAMENTI E ALBERI CHE RISCHIANO DI CADERE
A POCHI METRI DALL'OASI NATURALISTICA MONTENUOVO

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. “Pericolo frana” in via Virgilio, ad Arco Felice. Nei pressi dell’Oasi naturalistica Montenuovo, numerosi alberi che sorgono lungo una facciata del monte non hanno più radici nel terreno, condizione che rende particolarmente pericolosa la stabilità degli arbusti. E le prime crepe iniziano a vedersi, specie durante e dopo le piogge: pezzi di terreno, massi che si staccano dalla superficie cadendo giù e rendendo off-limits il marciapiedi che sorge a ridosso dell’altura e che conduce all’ingresso dell’Oasi Naturalistica. “Continui smottamenti di terreno” spiegano gli abitanti che abitano lungo via Virgilio, “che si registrano dopo le piogge, quando cadono giù detriti, sassi e grossi pezzi di terreno”. Sembrerebbe in atto, a vedere l’altura, che sia in atto un’opera di erosione di questa facciata del Monte Nuovo che inevitabilmente, col passare del tempo, diventa sempre più un potenziale pericolo per i residenti della zona, passanti, automobilisti. Il terreno, che sorge ad almeno 2 metri sopra il livello della strada, è solo in minima parte “protetto” da un muro di contenimento di pietre, mentre tutta la parte superiore, dove sono radicati gli arbusti, tra i quali numerosi pini, sembra corrosa a tal punto che gli alberi si presentano quasi del tutto sradicati. Mura di contenimento che presentano le classiche fessure utili per far defluire le acque nei casi di piogge. Radici fuori terreno che pericolosamente fanno perdere stabilità e potrebbero, da un momento all’altro, provocare a caduta degli alberi. A ciò si aggiungerebbe anche la perdita di compattezza da parte del terreno che, senza radici, arriverebbe per diventare ulteriormente friabile e a rischio caduta. “Noi non abitiamo qui però vi possiamo dire che quello che vedete non è niente perché vengono a pulire. Ma spesso c’è talmente tanto terreno e ci sono tante pietre che non è possibile nemmeno camminare lungo il marciapiedi. Che ci sia qualcosa che non va in questo angolo che conduce all’Oasi Naturalistica lo si capisce appena imboccata via Virgilio: delle transenne delimitano dei rialzamenti lungo la strada, quasi che il manto stradale composto da sanpietrini stesse per esplodere da un momento all’altro. Poi alzando la testa non passano inosservate le lunghe e grosse radici che escono dal terreno, mostrando alberi che sembrano “appoggiati” appena sulla superficie. Una pioggia torrenziale potrebbe favorire ulteriormente l’erosione che sembra essere in corso dando il definitivo “colpo finale” alla instabilità delle piante, facendo crollare tutto a valle. Un potenziale pericolo per la incolumità dei cittadini e dei tanti residenti della zona, a pochi metri di distanza dalle proprie abitazioni.

giovedì 14 ottobre 2010

STORIE DAI CONTAINER, TRA DEGRADO E ABBANDONO

PREFABBRICATI SENZA ACQUA CALDA E SCARICHI NEI BAGNI
CALDI IN ESTATE E FREDDI D'INVERNO,FUORI TOPI E RIFIUTI

E L'INCUBO DELL'AMIANTO TRA LE LAMIERE VECCHIE 30 ANNI

di Gennaro Del Giudice

POZZUOLI. Assunta ha 43 anni, è separata dal marito, vive in un container insieme al proprio figlioletto di 5 anni. Il piccolo soffre di epilessia, convulsioni, ha seri problemi di salute. La struttura dove mamma e figlio abitano e fatiscente, tra le più disastrate del campo containers di via Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una parte delle famiglie che hanno occupato queste strutture hanno reso vivibili le proprie abitazioni, raccontano do aver installato a proprie spese il dispositivo “salvavita”, pavimentato a terra, intonacato le mura, reso praticabili i bagni di containers costruiti oramai quasi trent’anni fa. Assunta non ha avuto la possibilità di aggiustare, di rendere abitabile e confortevole quella che sarebbe la sua casa. Il suo bagno non ha lo scarico, nella stanza da letto dove dorme insieme la suo piccolo ci sono tubature dell’acqua che posate lungo i muri, vicino ci sono i fili della corrente, gli impianti d’acqua ed elettricità sembrano quasi intrecciarsi. Le prese della corrente sono obsolete, alcune si mantengono con lo scotch. Non c’è nessuna caldaia, scaldino, Assunta prepara su un fornellino elettrico l’acqua calda per lavare il suo piccolo. Vive con l’incubo dell’eternit, dell’amianto, gli hanno detto che le pareti se bucate pure con un chiodo per mettere un quadro fanno fuoriuscire della polvere pericolosa. “Se ci faranno pagare anche la luce come faccio? Non ho soldi, a stento andiamo avanti, come farò” impreca la donna. Il suo piccolo come tanti altri che vivono qui dentro soffre di asma, una patologia che raccontano le mamme viene contratta da gran parte dei bambini. Si vive col timore dell’eternit, della presenza di materiali cancerogeni che prima o poi potrebbero dare spiacevoli sorprese. “Ci sono stati negli ultimi anni molti malati di tumore in questi containers, chi ci dice che non è dovuto all’amianto presente nelle mura?” dice Filomena che ricorda le scene di quando venne abbattuto uno dei containers proprio di fronte casa sua “Fu incaricata della rimozione una ditta specializzata, avevano mascherine, guanti, le lamiere le chiudevano e sigillavano prima di portarle via. Secondo voi perché? Perché era materiale pericoloso e a noi ci fanno vivere qui dentro”. Degrado, abbandono, che alla meglio i residenti riescono a sopperire “puliamo noi le stradine, togliamo le erbacce, ci sono topi, animali, insetti, mai venuti spazzini o giardinieri del comune, nessuno, facciamo tutto noi, abbandonati a noi stessi”.




























RAGAZZI CHE NON HANNO MAI VISSUTO IN UNA CASA, NATI E CRESCIUTI TRA LE LAMIERE
L'ATTESA DI UNA DONNA CHE HA VISTO NASCERE E SPOSARSI I SUOI 4 FIGLI NEI CONTAINER


Nati e cresciuti tra le lamiere di un containers, col sogno di una casa: Viviana, Maria, Veronica, Gioacchino, hanno tutti 19 e 22 anni. Da prima che nascessero i genitori sono qui, 25 anni vissuti con una speranza: avere una casa. Mamme e papà che mai avrebbero immaginato di vederli nascere, crescere e perfino sposarsi, in un container. Piano terra, il pavimento che tocca la base rocciosa della collinetta dove sorge il campo di Via Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando piove l’acqua entra tra le fessure, in inverno fa freddo, in estate il caldo è torbido “Non abbiamo mai avuto la fortuna di vivere in una casa, per noi è triste” dicono in coro i 4 ragazzi. “Anche quando conosciamo qualcuno abbiamo vergogna di dire dove abitiamo, di portarli qua. Spesso quando ci chiedono dove viviamo diciamo Arco Felice, Sotto il Monte, ma mai diciamo realmente dove viviamo”. Una condizione oltre che di precaria vivibilità, che costituisce un forte contraccolpo psicologico per i tanti ragazzi che vivono in questi prefabbricati. La triste sensazione di “non vivere come gli altri” che li spinge quasi ad emarginarsi. Storie di vita che si intrecciano tra le 45 strutture containers a pochi metri dalla Caserma dei Carabinieri di Pozzuoli, teatro il 26 agosto scorso dell’omicidio del tappezziere Gerardo Orsetti. “Di noi si parla solo quando succedono accadimenti tristi, per il resto siamo dimenticati da tutti” dicono le donne del campo, riunitesi all’interno dell’abitazione di una di loro. Si stanno organizzando per la protesta di oggi, al comune di Pozzuoli. C’è unione di intenti tra loro, la sofferenza dilata i limiti della solidarietà. Tra le storie di vita che si raccolgono in questo triste angolo di Pozzuoli c’è quella della signora Giuseppina Basile, 61 anni, tra le prime occupanti dei containers. Attende che gli venga assegnata una casa, da quando giovane mise piede in uno dei fabbricati in lamiera. Nel corso degli anni, avere 4 figli l’aveva portata nelle parti alte della graduatoria per l’assegnazione. Oggi è rimasta insieme al marito, i figli trasferiti, la possibilità di avere un alloggio ridotta “Se non fanno appartamenti da 45 metri quadrati per me e mio marito non me la danno una cosa” dice “ Ho aspettato tanto e ora chissà se prima o poi avrò le chiavi di una casa in mano”.

CONTAINER, LA PROTESTA DEGLI ABITANTI

DOPO 25 ANNI COSTRETTI A PAGARE L'ENERGIA ELETTRICA
IL COMUNE TAGLIA LE SPESE E DISDICE I CONTRATTI A SUO CARICO
I RESIDENTI NON CI STANNO, CHIEDONO NUOVE ABITAZIONI

di Gennaro Del Giudice
servizi pubblicati sul "Roma" e "Il Corriere Flegreo" giovedì 14 ottobre 2010

POZZUOLI. La doccia gelata arriva dal Comune di Pozzuoli, Secondo Dipartimento “Servizio Patrimonio a reddito”, attraverso una missiva protocollata il 29 settembre del 2010 che ha in oggetto una “Comunicazione di avviso distacco forniture energia elettrica”. Destinatari: gli occupanti dei containers che sorgono in via Carlo Alberto Dalla Chiesa, Licola, Rione Toiano e in località “La Schiana”. Strutture che, dal 1985, sono divenute residenza per le famiglie di senzatetto a seguito del fenomeno bradisismico. In tutto 300 persone, tra uomini, donne, bambini, 25 anni vissuti all’interno di autentici accampamenti, in strutture prefabbricate all’epoca del fenomeno bradisismico destinate ad ospitare locali commerciali per poi venire occupate, in quel periodo, dai senzatetto. Costruzioni che, nel corso degli anni e in attesa delle assegnazioni di case comunali, sono state “trasformate” alla “buona” dagli stessi occupanti che hanno provveduto a rendere abitabili e vivibili containers realizzati in lamiera. E dal 1985 ad oggi, sopperendo ad uno status di precariato, il comune di Pozzuoli ha provveduto ad accollarsi le spese per la fornitura di energia elettrica, alla quale andrebbe ad aggiungersi anche quella dell’acqua. 25 anni durante i quali si è attinto, dalle casse comunali, denaro per pagare bollette di luce e acqua per i circa 72 containers. La decisione di pagare il costo del servizio di fornitura elettrica, in un periodo di emergenza conseguente al periodo bradisismico, contenuta nella delibera numero 69/Urgente datata 4 febbraio 1986, nella quale l’allora Giunta Municipale deliberava “L’energizzazione dei prefabbricati commerciali in località “Caruso” occupati da famiglie senza tetto, stipulando un contratto di fornitura con l’Enel con impegno spesa futuri consumi di energia elettrica”. All’epoca, 50 Kwh di erogazione per i locali occupati da 16 famiglie provenienti dal campo roulotte di Lucrino, per una spesa da inserire nel bilancio di 15 milioni di lire. Famiglie che da 16 sarebbero aumentate, gravando ulteriormente sui bilanci comunali. Da quel febbraio di 24 anni fa ad oggi numerosi fenomeni si sono succeduti: da 16 le famiglie sarebbero diventate centinaia, poi ridottesi con le prime assegnazioni di “civili abitazioni” da parte del comune di Pozzuoli. Non è mancato “il gioco delle successioni e delle occupazioni”: assegnatari che cedevano i propri containers a figli o a terzi, edifici liberati ma nuovamente occupati, l’obiettivo dei “furbi” di turno di creare nuova emergenza. Malcostume che ovviamente non sarebbe stato sposato da tante altre famiglie, che ad oggi realmente attendono da quel lontano 1986 le “case promesse”. Anni vissuti con la speranza, la delusione di vedere assegnate abitazioni ad altri, “più in alto” in graduatoria, i bandi, quei containers che diventano sempre più case. Il disagio attenuati dallo sgravo delle utenze, poi il drastico provvedimento, fulmine a ciel sereno. Si legge nella missiva, recapitata qualche giorno fa a tutte le famiglie che vivono negli edifici prefabbricati nelle 4 zone della città “In riferimento all’oggetto e in un ottica di razionalizzazione della spesa di consumi elettrici, sostenuta da questo comune, gli occupanti dei container e prefabbricati, dovranno provvedere, qualora utilizzino le forniture poste a carico di questo Ente, a stipulare direttamente con le aziende erogatrici, i singoli contratti di fornitura” ed ancora, tra le righe “ La comunicazione è finalizzata alla disdetta dei contratti stipulati con la Società Enel che interessano la energizzazione dei container. Decorsi il termine di 30 giorni dalla notifica della presente questo servizio provvederà a richiedere la disattivazione dell’Ente erogatore”. In sostanza, il comune di Pozzuoli per ridurre i costi delle casse comunali, ha deciso di “tagliare” la spesa relativa alla energia elettrica per i containers. Pertanto, entro i prossimi 30 giorni le 45 famiglie del campo che sorge di fronte alla Compagnia Carabinieri di Pozzuoli, nei pressi della località denominata “Sotto il Monte”, le 6 famiglie che vivono nelle strutture di Licola Borgo, le altre 6 famiglie residenti in località “La Schiana” e le 15 famiglie del Rione Toiano, saranno chiamate a provvedere direttamente all’allacciamento della fornitura di energia elettrica, stipulando indipendentemente contratti con le aziende fornitrici. Decisione che ha fatto andare su tutte le furie gli occupanti dei container, alcuni dei quali attendono da oltre 2 decenni l’assegnazione di case da parte dell’ente comunale. E per oggi hanno annunciato una protesta, alle ore 16 presso la casa comunale al Rione Toiano. Assicurano che saranno in tanti, una delegazione dovrebbe essere ricevuta dal commissario prefettizio Roberto Aragno. “Viviamo in condizioni precarie, in alloggi fatiscenti, aggiustati con i nostri soldi” dice Filomena Allioli “ Non ce la facciamo a vivere più qua dentro, vogliamo continuare a non pagare perché è assurdo che questa situazione va avanti da 25 anni. Devono muoversi a costruire e ad assegnarci le case”

SCONTRO NELLA NOTTE: GRAVE UNA DONNA

PAURA IN VIA VECCHIA SAN GENNARO, TERRIBILE IMPATTO TRA DUE AUTO
TRE FERITI, DISTRUTTO UN MURO E VOLATA LA BOMBOLA DI UN IMPIANTO A GAS

di Gennaro Del Giudice
pubblicato sul "Roma" e "Il Corriere Flegreo" giovedì 14 ottobre 2010
POZZUOLI.Una donna in prognosi riservata, due feriti, due automobili distrutte, l’intervento dei vigili del fuoco per estrarre gli occupanti incastrati nelle lamiere. Un urto tremendo, l’auto che urta violentemente facendo cadere un muretto, si sgancia il bombolone dell’impianto a gas da una delle due auto coinvolte, finisce a 50 metri dall’auto. Poteva essere un disastro. Teatro, ancora una volta via Vecchia San Gennaro, a Pozzuoli, dove non meno di 15 giorni fa un americano alla guida della sua auto investì altre autovetture, provocando diversi feriti. Anche questa volta lo schianto nella notte, tra lunedì e martedì intorno le 3.30, nei pressi dell’Accademia Aeronautica. Due giovani, un ragazzo e una ragazza, tra i 20 e i 25 anni, stavano viaggiando in direzione Agnano, a bordo di una Fiat Palio, erano usciti per trascorrere una serata di divertimento, provenivano da Pozzuoli. Al volante dell’auto, a quanto pare, la donna. Superato il santuario della Chiesa di San Gennaro e l’Accademia dell’Aeronautica improvvisamente, secondo le prime ricostruzioni, la donna perdeva il controllo dell’auto, che iniziava a girarsi su se stessa, in un pericoloso testa coda. Il mezzo finiva contro un muretto di cinta di un parco residenziale che sorge lungo la strada, la violenza dell’urto era tale da abbattere addirittura parte del manufatto. L’auto, impazzita, finiva la sua folle corsa impattando contro un’automobile che nel frattempo giungeva dalla corsia opposta, proveniente da Napoli e diretta a Pozzuoli. Uno scontro tremendo, inevitabile, che distruggeva entrambe le vetture. L’auto con a bordo i due giovani si accartocciava su se stessa, sia nella parte anteriore che su quella posteriore. Dappertutto erano visibili i segni dei numerosi impatti. Feriti all’interno i due giovani occupanti, per estrarli dall’abitacolo nel quale erano rimasti intrappolati era necessario l’intervento dei vigili del fuoco per tagliare le lamiere. Sul posto giungevano anche ambulanze del 118 e i militari della Compagnia carabinieri di Pozzuoli. In gravi condizioni la ragazza all’interno della Fiat Palio, trasportata all’ospedale “Santa Maria delle Grazie” in località “La Schiana” in prognosi riservata. Condotti presso il nosocomio puteolano l’amico della donna e il conducente dell’altra vettura coinvolta nell’incidente. Le loro condizioni non destavano particolari preoccupazioni. Sul luogo dell’incidente le due auto, finte nello stesso senso di marcia. Distrutta la Fiat Palio, dalla quale nell’impatto si staccava il bombolone di gas dell’impianto montato sull’abitacolo, successivamente ritrovato a circa 50 metri di distanza dal veicolo. Un’esplosione avrebbe potuto provocare una tragedia. Semidistrutta anche l’altra auto, accartocciata sulla parte anteriore. Dopo qualche ora Entrambi i mezzi venivano rimossi dai carri attrezzi della ditta incaricata e il manto stradale ripulito dagli addetti del servizio intervento post-incidenti.

mercoledì 13 ottobre 2010

100MILA

E’ come una goccia nell’oceano, infinitesimale, piccola, ma è pur sempre una goccia. L’importanza di esistere, di esserci, di urlare. Come in questi giorni stanno urlando le 40 operatrici di un call center di Pomezia, da 1 anno senza stipendio. Il loro è un urlo pieno di rabbia, contro le scatole cinesi del malefico sistema messo in atto da un imprenditore senza scrupoli. Prima di loro hanno urlato le colleghe di Napoli, hanno urlato Mario e Mimmo dal tetto di una fabbrica, gli immigrati di Licola, gli Lsu. Tante urla. Rabbia, dolore, tragedie, appelli, descrizioni, la cronaca, la politica, quella volontà di narrare, raccontare. Nonostante mille difficoltà. Nonostante querele, minacce, insulti. La querela ricevuta da quell’imprenditore senza scrupoli, io colpevole di aver dato voce alla verità. Le minacce e gli insulti degli ultimi giorni per la sola colpa, ancora una volta, di aver dato spazio, di far parlare quelle 40 operatrici. Questo blog è stato ed è ancora un ponte, Napoli e Pomezia i due capi, centinaia di operatrici in contatto, l’unico mezzo per tenerle unite contro quell’uomo senza scrupoli. Contro i suoi galoppini che mi minacciano, contro le malvagità all’interno del fenomeno “call center”. Vogliono chiudere questo blog. I loro avvocati sono al lavoro, hanno capito che querele e minacce non bastano. La conferma arriva da Pomezia. Nel frattempo tocchiamo 100mila visite, 100mila volte un computer ha visualizzato queste pagine. Un numero esorbitante, la consapevolezza di piacere che da una parte diventa paura, genera ansia, un fenomeno più grande di me, dall’altra la volontà di migliorare. Alla base di tutto, e lo dico senza demagogia, la voglia di sentire qull'emozione che si vive quando si da voce a chi non ne ha, a chi non può urlare. Vedere disperazione, ascoltare, farsi carico delle sofferenze altrui, leggerle, riportarle. E la voglia di dare una Informazione con la "I" maiuscola, senza filtri e senza legami con quelle "logiche" di manipolazione della verità stanno "azzannando" anche i media. "Sarò l'ultimo arrivato, l'ultimo dei giornalisti, ma anche l'ultimo che si farà zittire e che, fino a quando potrà, darà a tutti la possibilità di parlare, di urlare!" l'ho detto alle 40 operatrici sul tetto dell'azienda, lo dico a tutti VOI.


Come dico 100mila volte GRAZIE a tutti VOI, a quanti che da quel 9 gennaio del 2009 iniziarono a seguire questo blog.

VI dico INFINITAMENTE GRAZIE!!!

Con affetto e sincerità,
Gennaro Del Giudice

martedì 12 ottobre 2010

IL CALL CENTER DEL MALAFFARE

PIRAMIDI SOCIETARIE, SCATOLE CINESI E 400 DIPENDENTI SENZA STIPENDIO DA MESI
ALLA HERLA DI POMEZIA I SOLDI PUBBLICI SONO STATI SPESI PER APRIRE CALL CENTER IN ALBANIA
E I LAVORATORI HANNO OCCUPATO LA SEDE


di Andrea Palladino
pubblicato su "Il Manifesto"
(foto inviate da Stefano Mengozzi)

POMEZIA (ROMA). Questa storia potrebbe iniziare in uno dei tanti porti turistici della costa laziale, a pochi chilometri da Roma, dove Yacht e piccoli velieri di lusso mostrano la faccia più dura della crisi, quella dei padroni e dei predoni. «Lady Canvas» è una barca da regata che ha uno sconosciuto armatore, il napoletano Giorgio Arcobello Varese. Il nome non dice nulla a chi non è passato almeno una volta nei gironi infernali dei call center, ottocentesche linee di montaggio dove il padrone della ferriera spesso si nasconde dietro vortici societari, serie di scatole cinesi che appaiono e si dissolvono a volte in poche ore. L'armatore di Lady Canvas la settimana scorsa era la persona più ricercata da un gruppo di lavoratrici e lavoratori di Pomezia, senza stipendio da circa un anno. Ultima ditta conosciuta la Herla Italia srl.
Il nome del battello di questo elegante napoletano - con la passione per i call center e i grovigli societari - ha un significato tutto particolare. Lo racconta una delle tante ragazze che ieri occupava l'edificio a specchio di Pomezia, dove lavoravano quasi 400 operatori di call center: «Il canvas è il nostro premio, che può essere un televisore, un cellulare, un computer. Lo vince chi produce, chi vende, chi riesce a prendere clienti con la telefonata vincente». Il canvas è quella specie di totem che nei call center fa girare il mondo del lavoro, ti fa sognare, ti droga di produttività e superlavoro. Chissà, forse era a questo che pensava l'armatore d'antan Giorgio Arcobello Varese, quando al suo Yacht da regata metteva quel nome misterioso, Lady Canvas. O forse era quello il suo premio, il suo sfizio per i fine settimana da skipper.
Nei circoli nautici della capitale, dove il battello fa la sua bella mostra, di certo non si parla di quei 400 lavoratori che devono ricevere in media 10.000 euro a testa di arretrati, dopo aver lavorato per anni vendendo di tutto. Da una settimana quaranta di loro hanno occupato il posto di lavoro, la palazzina a due piani nella prima periferia di Pomezia, città industriale alle porte di Roma. Sono saliti sui tetti, legandosi al cancello, ripercorrendo la strada delle migliaia di lavoratori che negli ultimi due anni sono stati travolti dalla crisi. Nel loro caso, però, il problema non è il calo delle commesse o la bufera finanziaria: nessuna cassa integrazione, nessuna mobilità, semplicemente hanno smesso di pagarli. «E la cosa più incredibile - raccontano - è che i nostri committenti, Edison e la Matrix, la società che vende spazi pubblicitari su virgilio.it hanno sempre regolarmente pagato le commesse».
Dall'Irlanda alla Romania . «Siamo arrivati in questi giorni, chiamati dai lavoratori che sono in una situazione disperata», raccontano Gianni Leonetti della Cgil Pomezia e Dino Oggiano, della Slc-Cgil del Lazio. Scorrono le visure camerali, leggono contratti di cessioni di rami di azienda, tracciano sui fogli bianchi i complessi incroci societari che girano intorno a Giorgio Arcobello Varese. «Vedrai che lui appare solo come un socio minoritario - raccontano i lavoratori - ma in realtà tutti qui sanno che è Giorgio il padrone. Tant'è che da quando abbiamo iniziato a protestare lui non si è fatto più vedere ed ora manda solo il suo avvocato». Come in altre storie di call center e lavoratori abbandonati al vertice delle piramidi societarie ci sono gruppi finanziari nascosti fuori dal confine italiano.
La Herla Italia srl dipende dalla Herla Holding, società con sede a Dublino, in Irlanda. Lo scorso marzo ha stretto un contratto di affitto di ramo d'azienda da un'altra società del gruppo, la Sercomm srl, ereditando - come si legge dal contratto - 327 dipendenti operativi, 22 non operativi e 15 collaboratori, per un totale di 364 lavoratori. Gran parte di loro era stato «stabilizzato» negli anni passati, ovvero assunto con contratto a tempo indeterminato. Lavoratori stabili, garantiti, che avevano raggiunto la loro metà. «Hanno iniziato a non pagarci più, quando già avevamo degli arretrati dalla precedente azienda, che ci aveva ceduto alla Herla», spiegano. Non solo. Con il tempo gli operatori del call center si accorgono che neanche i contributi venivano versati, ed iniziano a preoccuparsi. «Eppure siamo un'azienda in piena attività - racconta un ragazzo trentenne - tanto che in quattro mesi un gruppo di soli 15 operatori è riuscito a portare un fatturato di un milione di euro: adesso ci pagheranno, ci siamo detti». E invece nulla accadeva, salvo scoprire che i soldi entrati erano serviti ad aprire un call center in Albania e un altro in Romania.
Tutti contro tutti .
Il colpo di scena arriva a settembre. Per prima cosa vengono individuati all'interno della azienda i lavoratori più difficili da gestire, quelli che si permettevano di chiedere il rispetto dei diritti, di contestare i rifiuti ad effettuare le pause garantite dal contratto e, soprattutto, di esigere il pagamento degli stipendi. Una quarantina in tutto, in buona parte ragazzi con esperienza, che conoscevano già bene l'azienda dove lavoravano. «Ci hanno isolati, sono arrivati a vietare agli altri di parlare con noi durante le pause», spiegano. Un mese fa Giorgio Arcobello Varese e la moglie, Marilena D'Orazio, hanno invitato uno ad uno i lavoratori più morbidi - o forse impauriti dalla sola idea di perdere il lavoro - ad una convention in un hotel a Pomezia. «Lei, Marilena, ha iniziato a piangere, si faceva abbracciare - racconta oggi chi ha partecipato - e alla fine a chi era andato all'incontro hanno proposto l'accordo che li avrebbe salvati». Tre pagine in tutto, decisamente vergognose: «Per seicento euro dovevi rinunciare ad ogni pretesa, compreso il contratto a tempo indeterminato, per poi essere assunto, diciamo così, con contratto a progetto, in una nuova società». Ed ecco che come per magia centinaia di lavoratori di una società non in crisi si trasformano da ingombranti dipendenti in leggeri, leggerissimi e decisamente più ricattabili collaboratori «a progetto». La nuova società, la Fidecomm, era pronta a prendere il testimone, negli stessi locali, con gli stessi compiti e, forse, con una parte delle stesse commesse.
Computer e minacce
La scorsa settimana i quaranta esclusi dall'accordo capestro hanno capito che ormai il loro destino era segnato. Hanno occupato i locali, salendo sul tetto dello stabilimento, prima, e di un grattacielo abbandonato poco dopo. Per ora nessuno ha mandato i vigilantes per cacciarli, come avvenne con Eutelia. «Qualcuno, però, ci ha chiamato sui cellulari - raccontano delle lavoratrici - e con accento del sud ci hanno detto che se non andavamo via qualcosa di brutto sarebbe accaduto. Chiamavano da numeri inesistenti, come avviene a volte con i sistemi dei call center». Per ora, durante la notte, mani abili e anonime hanno fatto sparire i due computer dell'amministrazione, entrando da una porta esterna senza forzare la serratura e poi simulando la rottura dell'ingresso interno, come a voler far ricadere la colpa sui lavoratori che occupano i locali.
Venerdì scorso gli avvocati delle società hanno offerto un primo pagamento di 900 euro - la maggior parte di loro deve ricevere più di 10 mila euro - e un tavolo di trattativa davanti al prefetto. Sembra chiaro, dunque, che il gruppo amministrato da Giorgio Arcobello Varese ha fretta di liberare i locali e di avviare la nuova società. «Ma noi non ce ne andremo fino a quando non verranno pagati tutti gli stipendi - scandiscono i lavoratori di Herla - e fino a quando non verranno rispettati tutti i diritti. Nessuno può dividerci». Due facce della crisi, lo yacht del padrone e la resistenza coraggiosa di chi quella barca l'ha pagata.